Marrakech
da:"Viaggi e scritti letterari", Cesare Brandi, Classici Bompiani, 2009
CONGEDO
Siamo alla fine, il Marocco è dietro alle mie spalle, davanti a me, questo abitato immenso a macchia d'olio, anonimo, se non fosse per le palme che ti fanno ancora assaporare il sole. Ma il sole non c'è più, grandi nuvoloni atlantici contraddicono a quell'idea edenica del Marocco, che è inevitabile portare in sé e che ti ha accompagnato alle soglie di Casablanca. Arrivare qui è come essere già partito: è come una stazione di testa, in cui tutti i treni fermano, in cui si scende solo per risalire. E forse non c'è sensazione più malinconica che sentirsi formare il passato dentro il presente, come una digestione difficile. Perché il Marocco è questo, da un lato ti riporta velocemente all'indietro, non all'infanzia, ma a un passato che non è il tuo e che convive con quanto, del presente, è più comune e anonimo, sicché neppure ci se ne accorge. Dall'altro, alimenta in modo nascosto e quasi subdolo, il senso della favola: che si possa vivere una favola modesta, dove il cielo è sempre sereno, dove le persone sono tutte gentili, dove c'è insieme la neve, il sole, le palme, l'inverno e l'estate. Certo è un paese della vacanza, non si può lavorare in Marocco, non si può uscire, passeggiare, prendere una carrozzella. Dopo di che verrà a noia, ma prima che venga a noia, uno sta bene. E la cattiva coscienza, di non volere ricordarsi che è un paese povero, dai disastri annuali, terremoti o alluvioni? Purtroppo è una vacanza della coscienza, che si cerca qua; ma ogni vacanza è vacanza dalla coscienza.
Comunque, il colloquio che avvia con se stessi, una vacanza del genere, non è ozioso, non è irresponsabile.
La serenità non è solo del cielo, è un modo di potere accogliere anche le nuvole, anche le tempeste, e di disperderle: allora ci si siede e si guarda con un occhio nuovo, con una mestizia tranquilla che non è amara ma il modo di consentirsi di vivere.